L’esperienza dell’esperienza: per una moderna teoria della conoscenza

Pensando di riprendere in parte il positivismo di Comte e la filosofia fenomenistica settecentesca, John Stuart Mill ha, seppure indirettamente, dato adito ad una nuova teorizzazione che lambisce lo...

Pensando di riprendere in parte il positivismo di Comte e la filosofia fenomenistica settecentesca, John Stuart Mill ha, seppure indirettamente, dato adito ad una nuova teorizzazione che lambisce lo scientismo e che prova superare qualunque tentazione metafisica nella ricerca di una soluzione a quello che si potrebbe tranquillamente definire “il problema della conoscenza” nei secoli dei secoli.

Che cosa sappiamo, che cosa possiamo sapere e che cosa, invece, è frutto solamente della nostra immaginazione, seppure imbevuta della conoscenza che otteniamo grazie all’esperienza (quindi alla constatazione di fenomeni mediante l’osservazione e la rielaborazione empirica), è il tema di queste righe che, quindi non riguardano soltanto esclusivamente Mill. Ma il pensatore edimburghese ci è necessario per delineare quel moderno approccio ad un sempre maggiore rilievo per le scienze e, con inversione proporzionale, ad un sempre minore interesse per la metafisica.

Partiamo un po’ più da lontano: con l’invenzione di nuovi strumenti capaci di sondare il cosmo nelle vicinanze della Terra, la rivoluzione astronomica e scientifica si concretizzò nella formulazione di nuovi teoremi e ipotesi sulla struttura di quell’Universo che, per gli uomini (e le donne) del Quattrocento, era poco più che concepibile in quanto vastità di stelle e di pianeti ruotanti intorno al nostro.

La Bibbia ci aveva parlato, nel Libro di Giosuè (espressamente in 10, 12-13) di una preghiera rivolta a Dio affinché potesse far fermare il disco del sole nel cielo così da permettergli di combattere e battere i nemici. Il mito religioso afferma che il sole si stabilizzò e non si mosse quasi per un giorno intero. Quindi, se si era fermato, era del tutto deducibile che si muoveva e, se così era, non poteva che muoversi attorno al pianeta su cui regnava la vita cosciente voluta da Dio con la creazione.

Qualunque ipotesi alternativa che andasse ad intaccare il geocentrismo era, pertanto, in un Seicento in cui la Chiesa di Roma doveva difendersi dal dilagare del Protestantesimo, una messa in discussione dell’unica interpretazione possibile del testo biblico: quella pontificia, quella che discendeva dall’apostolato petrino che, a sua volta, era la diretta emanazione del ministero di Gesù Cristo in terra.

Galileo, perfezionando il cannocchiale inventato in Olanda, fece fare alla conoscenza un salto di qualità enorme: per la prima volta uno strumento che era stato più che altro il divertimento di cortigiani oziosi e spensierati, diveniva una protesi della vista umana proiettata nell’Universo. La conoscenza, quindi, non era soltanto più una conseguenza dei miti biblici, del sentimento religioso e del teleologismo imperante che dettava i presupposti di ogni cosa spiegando le ragioni dell’esistenza esclusivamente finalizzate ad un imperscrutabile volontà divina.

La conoscenza assumeva così le fattezze di un presupposto di ragione, di osservazione, di contemplazione non più soltanto metafisica, ma propriamente “fisica“. Due secoli dopo, John Stuart Mill ne ricava che l’esperienza è alla base della conoscenza e che il metodo scientifico, per quanto Galileo non lo avesse descritto in una specifica opera ma avesse lasciato tracce del modo con cui era arrivato a scoprire i satelliti “medicei” di Giove e le macchie solari, è anzitutto la sequenza di una ipotesi da verificare e riverificare.

E poi, ancora, di altre ipotesi che possono superare le precedenti proprio mediante nuove intuizioni che sono offerte, comunque, dalla capacità di osservare i fenomeni fisici che ci circondano e di cui noi stessi facciamo parte. Il problema conoscitivo, quindi, trasmuta da una antica tendenza neoplatonica alla contemplazione fine a sé stessa ad una gnoseologia espressamente scientifica che, a partire proprio da Galileo, inizia a mettere in discussione l’impianto aristotelico tanto della fisica quanto della matematica per investire, seppure in seconda istanza, i problemi della morale.

L’esperienza è per Galileo e per Mill alla base della conoscenza e non è, per questo, nell’essere conoscenza fisica e materiale in contrasto con la dimensione spirituale e con il credo religioso. Scienza e fede possono convivere. Oggi è facile dare ragione ad entrambi i pensatori, ma andando a ritroso nel tempo, contestualizzando l’epoca in cui vissero, di sicuro per il pisano fu arduo poterlo dire, tanto che l’abiura davanti alle minacce di tortura dell’Inquisizione ne sono l’evidenza più manifesta.

E per Mill fu difficile confutare in parte il comtismo e in parte un fenomenismo che, tuttavia, intendeva preservare e salvare. Il problema dell’esperienza alla base della conoscenza è qui vissuto, diversamente da Comte, come una indagine sull’indagine medesima: l’uniformità della Natura (quella con la enne rigorosamente maiuscola) è una oggettività che deriva da una osservazione frutto di una ciclicità degli esperimenti e dei punti di vista che, da ipotesi prime, divengono elementi di conoscibilità ulteriori dei fenomeni fisici.

Tanto basterebbe per affermare che la metafisica non ha spazio in questo frangente e che viene, se non sconfitta, quanto meno non presa più in considerazione per cercare di far alzare l’asticella della gnoseologia moderna affidata alla prova da laboratorio, alla verifica de visu. Ma Mill pare cascare in una tentazione di reintrodurre un argomento dal retrogusto, appunto, metafisico: «fare dell’esperienza il criterio dell’esperienza stessa». Cioè adoperare la stessa esperienza per indagare su di essa e per scoprirne l’origine.

Se la conoscenza ha per base originaria l’esperienza, allora, si domanda Mill, da dove proviene quest’ultima? Comte aveva affermato che ogni nozione nuova di conoscenza ha il suo fondamento sulla prova empirica e, pertanto, nulla può essere accettato come certo, vero e fisicamente provato se non viene sottoposto a quelle sperimentazioni che obbediscono alla legge della causa e dell’effetto.

Mill trovò che l’esperienza, in questo caso, fosse trattata come qualcosa che stesse “nella natura delle cose” e che, quindi, pretendendo di essere il punto di inizio, il principio del moderno metodo conoscitivo, finisse con l’essere considerata un concetto astratto prescindibile da tutto il resto, persino dalle dimostrazioni scientifiche aveva consentito e portato a progredire. Si trattava, quindi, di riprendere il termine “esperienza” e riformularlo, partendo anche da Comte ma, alla fine, superandolo.

Per l’appunto Mill fa questo: studia l’esperienza mediante l’esperienza che ha dell’esperienza stessa. Compie così un atto di astrazione che rischia pericolosamente di scivolare sul piano inclinatissimo della metafisica e, pertanto, di allontanarsi da quello scientismo che, invece, gli è tanto caro. Nelle turbolenze seicentesche, Galileo, pur senza aver messo nero su bianco il suo metodo scientifico, ci consente di ricavare dai suoi studi una serie di assunti. Primo fra questi è che la scienza è fatta di «sensate esperienze», quindi di esperienze sensoriali.

Tatto, vista, gusto, olfatto, udito sono le porte aperte sulla realtà che ci compenetra e a cui non sfuggiamo. Ma Galileo aggiunge ai sensi, strumenti della nostra capacità di conoscere, anche le «necessarie dimostrazioni», quindi la traduzione pratica di ciò che vediamo, ascoltiamo, sentiamo e che, pertanto, per essere maggiormente affinabile, ha bisogno della sperimentazione scientifica.

Mill prova a dare all’esperienza un carattere universale pur rendendosi conto che la soggettività delle nostre percezioni può influenzare il campo conoscitivo e sottrarlo, se non completamente, almeno in buona parte, ad un oggettivismo che è sempre uno dei cardini primari del metodo e della risoluzione dei dubbi degli scienziati. L’esperienza, quindi, intesa come un fenomeno globale, che indistintamente appartiene a tutte e tutti, viene così indagata al pari degli studi della psicologia settecentesca che aveva tentato di farne una sorta di ente-concetto separabile e isolabile dal contesto.

Ma, Mill, che segue i dettami della scuola di Bentham, si propone invece di studiare l’esperienza stessa, per cercare di capire come i dati e i fenomeni che la rendono tale si combinino tra loro e diano quindi seguito a tutta una serie di forme e presupposti oggettivi che divengono parte della conoscenza personale e, quindi, caratteri sommabili in un grande processo di condivisione delle esperienze che renderebbe il tutto poi universale.

Siccome deve categorizzare i suoi pensieri in merito, Mill inizia a dare un nome a queste sue elucubrazioni (che per ora sembrano davvero estremamente legate ad un vizio metafisico di fondo): chiama “stati di coscienza” gli elementi che sarebbero alla base della congiuntura dei fenomeni che danno quintessenza all’esperienza, e li scinde in due tipologie. La prima è quella della “somiglianza e dissimiglianza” e la seconda quella della “simultaneità o successione“.

Ciò che è raffrontabile e assimilabile entro determinati canoni appartiene ad una categoria di elementi conoscitivi. Ciò che è dissimile, altrettanto. E così pure tutto quello che si verifica in identica misura, temporale e materiale, può essere ascrivibile ad una specifica categoria che, unitamente ad altre, dà vita all’esperienza conoscitiva. Il fattore interpretativo singolare, di ognuno di noi, tramite l’elaborazione mentale viene da Mill appellato come “chimica psicologica“.

Il problema della causa e dell’effetto viene così riconsiderato alla luce di una serie di dati che provengono tanto dall’osservabilità delle cose e delle circostanze quanto dall’incrocio di questi “stati di coscienza” con quelli della fisicità sensoriale. L’origine dell’esperienza, dunque, è – nonostante possa sembrare banale affermarlo oggi, visto che la diamo, al pari degli umani del Settecento, come data per scontata – la commistione di combinazioni tanto psichiche quanto fisiche.

Il nesso causale tra le cose, conviene Mill al pari di Hume, è una sorta di “invariabilità di successioni” che sono, per la maggior parte, frutto della Natura propriamente detta, quindi dell’esistente in cui ci troviamo e di cui facciamo parte. Noi stesso subiamo questo nesso tra causa ed effetto e siamo a volte causa di qualcosa ed altre volte effetto di una causa. Ciò che conta è quell'”invariabilità” che Mill attribuisce alla successione degli eventi: nulla può mutare le leggi naturali se non la Natura stessa e provare a comprendere la combinazione “meccanicistica” di tutto ciò è affidarsi, appunto, all’esperienza.

Il problema irrisolvibile è un andare non avanti nella conoscenza dell’origine dell’esperienza ma a ritroso, se non nel tempo, nel processo gnoseologico di apprendimento di sempre maggiori rapporti tra i dati e i fatti così da scoprire perché la materia si comporta in un determinato modo piuttosto che in un altro. Altro modo che noi possiamo pensare, immaginare, intuire forse anche, ma che non per questo corrisponde ad una delle possibilità in cui le trasformazioni avvengono.

In fondo, poi, il meccanicismo era stato fortemente influenzato da tutto un filone della metafisica che lo aveva ridotto ad essere più che altro una appendice del creazionismo piuttosto che un punto di partenza per uno scientismo di vecchio e nuovo modello. Per questo il concetto di “causa“, col passare dei secoli, si era andato via via svuotando del suo significato primordiale, assegnatoli dall’ellenismo, per divenire un postulato subordinato alla volontà divina espressa dalla patristica e dal pullulare delle molte eresie medievali.

L’introduzione, da parte di Comte stesso del concetto di “causa fisica” per distinguere la “causa” vera e propria da quella intesa metafisicamente, ha affascinato John Stuart Mill proprio nel momento in cui ha indagato il problema della conoscenza e ha provato a studiare l’esperienza mediante l’esperienza stessa.

Pensando di essersi collocato al di fuori del soggettismo come fenomeno antitetico all’oggettività scientifica, ad un interpretazionismo del tutto individuale dei fatti e degli accadimenti, Mill finisce, indirettamente, col rientravi e senza accorgersene. Perché l’indagine non può che partire da uno e riguardare poi la moltitudine. Dunque l’osservazione empirica è possibile tanto nella singolarità dell’individuo quanto nella condivisione sperimentale collettiva.

Quegli “stati di coscienza” cui attribuisce il primo valore fondante di una esperienza che è, a sua volta, pietra angolare della conoscenza, cosa altro sono se non l’incontro tra il nostro modo di osservare, pensare, riflettere e sentire e la realtà oggettiva che viene, così, soggettivizzata quanto basta per poter essere tradotta poi in qualcosa di nuovamente comprensibile per tutte e tutti?

Mediante la nostra mente e il nostro corpo, che sono elementi sensoriali soggettivi, noi ci portiamo verso una condivisione di massa dei fenomeni naturali e proviamo a capire insieme perché, come, quanto e quando viviamo. L’indagine esistenziale è indagine naturale di per sé. Ma lo è soprattutto se si astrae dalla metafisica e, tramite quegli stati di coscienza descritti da Mill, ha la giusta pretesa di farci sapere qualcosa di più sull’esistente. E dunque anche su ognuno e su tutti.

MARCO SFERINI

28 luglio 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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Il portico delle idee

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